Effetti psicologici sul bambino
di
una madre giudicata assente
Furono le osservazioni degli psicoanalisti prima, e poi quelle degli psicologi e degli psichiatri specializzati nella protezione dell'infanzia a mettere in luce l'importanza vitale della qualità delle cure prodigate al bambino dai genitori nei primi anni dell'infanzia. Anche la pediatria, via via che si è liberata, attraverso le recenti scoperte terapeutiche (soprattutto nel campo delle malattie infettive e nutrizionali) dalla pressante preoccupazione di salvare la vita dei bambini, ha potuto occuparsi di problemi che solo una trentina di anni fa sarebbero apparsi marginali, quali gli aspetti psicopedagogici dello sviluppo infantile. Ci si è così accorti che i fattori psicologici, che nella primissima infanzia sono essenzialmente determinati dai rapporti affettivi, possono addirittura provocare malattie organiche e viceversa influire sulla loro guarigione.
Secondo alcuni autori (es. Spitz, Soulé e Aubry) la carenza di cure materne produce, nel bambino piccolo, un generale indebolimento dello stato generale, ed anche una maggiore morbilità e mortalità; ciò spiegherebbe in parte l'estrema facilità di un contagio che si verifica negli istituti, anche i più igienicamente attrezzati, e la gravità che in essi assumono malattie generalmente benigne.
SIGNIFICATO DI CARENZA DI CURE MATERNE
Si indica col nome di «carenza di cure materne» una situazione in cui il bambino non gode di quel legame affettivo, intimo e costante, che normalmente lega il lattante e il bambino piccolo alla propria madre (o a chi ne fa le veci), legame che, modificato all'infinito nella sua complessità e ricchezza dai rapporti col padre, coi fratelli, coi parenti in genere, presiede allo sviluppo del carattere e alla normale e armoniosa strutturazione della personalità dell'individuo. Si può pertanto ritenere carenziato anche il bambino che non sia stato abbandonato, ma la cui madre sia incapace di instaurare questo legame, oppure quando, per qualsiasi ragione, debba vivere lontano da lei. Cioè il termine «carenza» può designare molte differenti situazioni che genericamente si possono riassumere così:
1) assenza della madre o del sostituto materno («figura materna»);
2) discontinuità della relazione con la figura materna;
3) insicurezza delle relazioni con la figura materna.
In ogni caso è necessario studiare a fondo tutte le forme di mancanza di cure famigliari, sia quantitative che qualitative, anche quando il nucleo famigliare è presente accanto al bambino. Ad esempio anche un rapporto con la madre, se insufficiente, discontinuo, distorto, può essere più dannoso di una separazione. Le conseguenze della carenza affettiva possono apparire prestissimo, anche prima dei sei mesi, epoca alla quale abitualmente si fanno risalire le prime e vere relazioni oggettive e la comparsa dell'angoscia propriamente detta. Naturalmente la sensibilità dei lattanti alla frustrazione precoce è diversa da individuo a individuo (si dice che esiste una vera e propria «soglia» di tolleranza alla frustrazione - Soulé), ma è chiaro che gli effetti saranno tanto più evidenti quanto più questa sarà stata duratura, assoluta e precoce.
CONSEGUENZE
Quali sono, in pratica, le conseguenze visibili delle situazioni di carenza? Il bambino istituzionalizzato o comunque sottoposto a lunghi periodi di solitudine, a separazione ecc. subisce prima di tutto ritardi progressivi nello sviluppo psichico e in particolare nello sviluppo intellettuale (tipica una grave insufficienza nella capacità di astrazione). Particolarmente colpiti sono i settori del linguaggio e delle relazioni sociali.
Significativi sono i risultati di uno studio sistematico intrapreso da Spitz e Wolf sui fenomeni anormali che appaiono nel primo anno di vita quando il bambino vive in modo permanente in istituto.
Esiste poi un altro aspetto della personalità del bambino particolarmente vulnerabile: la sfera affettiva. Il problema qui si pone in termini veramente drammatici, perchè il non aver potuto strutturare in modo equilibrato ed armonioso il proprio mondo affettivo significa incorrere nei rischi della nevrosi o in futuri atteggiamenti di antisocialità.
La reazione tipica del bambino piccolo, è la «fame» di affetto incondizionata (che spesso lo manda incontro ad altre delusioni, causate dalla incomprensione dell'adulto), o viceversa un «rifiuto di affetto» che lo pone egualmente in condizione di soffrire. Una dimostrazione della gravità dei danni subiti da questi bambini è data dalle difficoltà che talora si incontrano nelle prime fasi dell'inserimento in una famiglia, sia pure positiva, affettuosa, accettante. Lo Spitz che ha studiato a lungo i bambini ospedalizzati usa l'espressione «depressione anaclitica» per indicare quello stato in cui prevale l'assoluta mancanza di reazioni, una specie di torpore, di profonda tristezza nella quale cade il bambino, e che è quasi sempre accompagnato da un evidente deperimento organico. Se il periodo di carenza non si protrae troppo a lungo, è sorprendente constatare la ripresa psicologica e fisica del bambino, quando venga ristabilito il primitivo rapporto con la madre o con una figura materna sostitutiva. Interessantissimi a questo proposito gli studi della dott. Aubry e del Bowlby, che citano casi analoghi di bambini il cui Q.I. si è alzato da 37 a 70 (in tre mesi di maternage) e da 35 a 97 (dopo diciassette mesi).
La situazione di carenza determinata da separazione e non da abbandona (cioè se si è verificato l'interruzione di un rapporto affettivo già instauratesi) può venir compensata con la tempestiva sostituzione della figura materna, purché abbastanza stabile. Nel caso che si abbia un ritorno della madre, si possono verificare reazioni diverse. In genere, dopo una separazione breve o «benigna» si produce nel bambino un attaccamento ansioso (la paura di perdere ciò che ha riacquistato), al contrario, una separazione lunga e negativa può determinare distacco o incapacità a riannodare relazioni affettive. Se la separazione, oltre che prolungarsi, si ripete, (e quindi il bambino subisce ripetuti traumi), si verifica in lui o un atteggiamento di ultradipendenza ansiosa, o di superficialità dei rapporti, o di anaffettività vera e propria. L'aspetto maggiormente negativo di queste situazioni è dato dall'instaurarsi, a livello non cosciente, di meccanismi di difesa contro nuove frustrazioni, nuove delusioni, sofferenze ripetute. E' come se in lui, deliberatamente, sorgesse la decisione di non voler più bene «perchè tanto è inutile». Il bambino si chiude sempre più in se stesso, in un mondo suo e impenetrabile dal quale non vuole uscire e dove non vuole che entri nessuno, proprio per non essere ferito nella sua sensibilità. Spesso l'adulto non capisce questo atteggiamento (lo considera «ingratitudine») e il bimbo si chiude ancora di più; si crea in tal modo un circolo vizioso che solo a fatica, con molto amore, pazienza, comprensione, potrà essere spezzato.
Abbiamo finora parlato di rapporto madre-figlio, ma bisogna sottolineare come dagli studiosi di questi problemi non sia considerato in senso assoluto, insostituibile per l'armonioso sviluppo del nato. Si preferisce infatti parlare di «figura materna principale» (che non è necessariamente la madre biologica) le cui cure possono poi essere completate, o parzialmente sostituite da quelle di altre persone: pensiamo alla figura paterna, ai parenti, ecc.
La fiducia negli altri è un sentimento che si consolida già nei primissimi mesi di vita del bambino, grazie ad un meccanismo di bisogni infantili puntualmente e amorevolmente soddisfatti. Avvolto dalle premure materne il bambino impara che l'ambiente che lo circonda è gentile e amichevole e sviluppa un istinto di apertura fiduciosa verso il mondo esterno.
In una serie di esperimenti, piccoli di scimmia venivano messi a contatto con due “madri fantoccio”: una fatta di freddo metallo alla quale era attaccato un biberon e un’altra senza biberon, ma coperta di una stoffa morbida, spugnosa e pelosa. Gli studiosi notarono che le piccole scimmie trascorrevano fino a diciotto ore al giorno attaccate alle madri "pelose" anche se erano nutrite esclusivamente dalla madri “allattanti ...” (Coniugi Harlow, 1958)
N.B. Ho deciso di pubblicare questo video in quanto toccante testimonianza di un tema che mi sta molto a cuore. Tuttavia considero riprovevole il modo in cui questo esperimento è stato condotto, motivo per cui eticamente mi dissocio.
La relazione con la madre fornisce al bambino una “base sicura” dalla quale egli può allontanarsi per esplorare il mondo ma subito farvi ritorno, in caso di minaccia, per ricevere conforto e sicurezza. Lo sviluppo della personalità risente moltissimo della possibilità di aver sperimentato o meno una solida “base sicura”; soltanto nel primo caso il bambino riceverà i mezzi necessari per accrescere la fiducia in sé stesso e per dare, a propria volta, sostegno e fiducia agli altri.
Ci sono, invece, situazioni capaci di compromettere lo sviluppo emotivo e le relazioni affettive di un piccolo. Come, ad esempio, un disturbo depressivo nella madre.
Una donna depressa, infatti, tende generalmente a distaccarsi da tutto quello che le sta attorno, completamente assorbita dai problemi, dai sensi di colpa e della propria infelicità. Si tratta di un fardello talmente pesante e difficile da gestire che, inevitabilmente, tutto il resto passa in secondo piano, compresa la cosa più preziosa per una madre: il proprio figlio.
Una mamma depressa ha, generalmente, un atteggiamento meno affettuoso e comunicativo verso il proprio bambino ed è meno ricettiva verso i segnali che il piccolo le trasmette.
Ci sono madri che, nonostante la malattia, riescono ad occuparsi ugualmente dei propri figli. Difficilmente però, in quanto vittime del proprio malessere, riescono a trovare l'energia per trasmettere loro stimoli più complessi: sensoriali, emotivi e giocosi.
Conseguenza diretta di questa mancanza di rassicurazione e di interazione è la frustrazione del bisogno di attaccamento del neonato, che non di rado provoca disturbi della personalità (tra cui la mancanza di autonomia e di autostima) nell'età adulta.
La convivenza con una figura materna depressa ha effetti devastanti anche se coinvolge il bambino in un'età maggiore.
In questo caso, infatti, la perdita improvvisa di un punto di riferimento fino a quel momento stabile può provocare un traumatizzante crollo delle certezze.
Nel primo caso il bambino, abituato ad essere respinto ogniqualvolta cercava conforto e protezione nella madre, tenderà a costruire le proprie esperienze facendo esclusivamente affidamento su se stesso, ad evitare gli attaccamenti per convinzione del rifiuto ed a ricercare l’autosufficienza anche sul piano emotivo.
Nel secondo caso il bambino, avendo subito il crollo improvviso della propria "base sicura", risulterà più incline all'ansia da abbandono e sarà incapace di gestire distacchi prolungati, vivrà nella convinzione di non essere amabile e avrà come emozione dominante il senso di colpa.
All’inizio della vita il bisogno biologico legato all’alimentazione è presente insieme a un altro bisogno, anch’esso fondamentale, quello di essere amati, nutriti d’amore, di essere desiderati, voluti, accettati per quello che si è (John Bowlby).
LA FIGURA PATERNA
Tutti gli autori ad esempio, mettono in luce l'importanza della presenza del padre, importanza via via crescente con l'età del bambino.
Egli rappresenta un modello immediato e valido di comportamento morale e sociale nel quale, il figlio specialmente maschio, tende a identificarsi ed inoltre, quale sostegno economico ed affettivo della madre, assicura direttamente ed indirettamente la sicurezza ambientale. Ne deriva che la mancanza o l'inadeguatezza della figura paterna produce nel bambino insicurezza e incertezza di comportamento.
L'importanza della figura paterna ci fa inoltre riflettere su un altro aspetto della carenza affettiva: sul fatto cioè che non solo il bambino piccolo viene danneggiato dalla mancanza di validi rapporti con i genitori: infatti anche il ragazzino grandicello può subire danni gravissimi se colpito nei suoi affetti. In tal senso può essere carenziato anche il bambino che abbia avuto, da piccolissimo, cure materne adeguate, ma ne sia stato poi in qualche modo privato.
CORRETTO SVILUPPO AFFETTIVO
Un sano sviluppo della personalità dipende sia dall'adeguato sviluppo della sfera cognitiva, affettiva e sociale, sia dalle interazioni che la persona stabilisce con l'ambiente esterno nel corso della sua evoluzione. L'analisi degli aspetti affettivi include esperienze psichiche relative alla soggettività, che si connotano secondo la polarità antitetica piacere-dispiacere, in base all'intensità, alle modalità di insorgenza, ed alla durata. In base agli elementi suddetti i fenomeni affettivi si dividono in: sentimenti, emozioni ed umore. I sentimenti sono i componenti basilari dell'affettività, sono persistenti ed esprimono la risonanza affettiva con la quale la persona vive la realtà corporea, la sua socialità ed i suoi processi psicologici. Le emozioni sono stati affettivi spesso intensi, ad insorgenza acuta e di rapido esaurimento; influenzano i processi psichici ed il comportamento e si esprimono sul versante corporeo e neurovegetativo. L'umore è la tonalità affettiva di base, va a costituire il temperamento abituale di una persona e lo stato affettivo temporaneo.
Studiare lo sviluppo affettivo significa analizzare il tipo di rapporti che il soggetto instaura con l'ambiente e le caratteristiche individuali, evidenziando i fattori che influenzano l'evoluzione.
Aspetti di ordine ambientale che condizionano la qualità delle relazioni affettive possono essere:
- il comportamento dei genitori, in modo specifico quello della madre nei primi anni di vita; - l'atteggiamento di accettazione o di rifiuto dell'ambiente;
- la possibilità di sperimentare esperienze sociali positive.
Particolarmente importante è la relazione madre-figlio, infatti la madre offre la prima relazione oggettuale del bambino, sull'esperienza della quale egli costruirà le successive relazioni interpersonali. Se questo rapporto manca o viene significativamente alterato precocemente, nel bambino si genereranno, dal punto di vista emozionale, stati carenziali che influenzeranno negativamente e spesso irreversibilmente, il suo sviluppo psicofisico.
Per carenza affettiva si intendono diverse sindromi caratterizzate da una condizione prolungata di non soddisfazione dei bisogni primari del bambino nel rapporto diadico con la madre.
I bambini che sperimentano una condizione di carenza affettiva sono quelli istituzionalizzati, ospedalizzati, o quelli che sono allontanati per lungo tempo dalla famiglia senza la possibilità di godere di un sostituto materno valido.
Autori quali Spitz, Bowlby e la Bender hanno studiato approfonditamente molti casi clinici di bambini cresciuti in condizioni affettivamente deprivanti, hanno conseguentemente evidenziato come questo stato carenziali produca effetti diversi, sempre negativi, a seconda del tipo di separazione, dell'età del bambino, della presenza o assenza di un precedente rapporto con la madre.
Fra questi effetti si trova: un progressivo rallentamento delle funzioni psicofisiche, difficoltà o impossibilità di stabilire adeguate relazioni interpersonali fino ai casi più gravi di deterioramento irreversibile delle funzioni cognitive, gravi alterazioni della sfera affettiva. Spitz fece studi sulla carenza da insufficienza grazie ai quali osservò che bambini di sei/diciotto mesi che si trovavano in tale stato passavano attraverso tre stadi: piagnucolamenti, grida acute con perdita di peso ed arresto nello sviluppo, ritiro e rifiuto del contatto (depressione analitica).
La teoria di Spitz fa capo alla psicoanalisi genetica e si colloca nel filone della psicologia dell'Io di Hartmann. Questa corrente distingue la crescita in due processi: i processi di maturazione, che riguardano il patrimonio ereditario e non dipendono dall'ambiente; i processi di sviluppo, che dipendono invece dall'ambiente e dalle relazioni oggettuali. Spitz, per formulare la sua teoria sull'evoluzione psicogenetica, ha osservato direttamente il bambino: nei primi anni di vita ci sono tre organizzatori dello psichismo che caratterizzano alcuni livelli essenziali dell'integrazione della personalità, in essi i processi di sviluppo e di maturazione si combinano.
Lo stabilirsi di un organizzatore dipende dalla comparsa di indicatori, ossia nuovi schemi di comportamento di seguito illustrati. La comparsa del sorriso di fronte al volto umano si stabilisce intorno ai due/tre mesi, quando si ha la prima relazione preoggettuale indifferenziata e la comparsa della percezione esterna. La comparsa della reazione d'angoscia di fronte all'estraneo, intorno agli otto mesi, periodo in cui c'è la capacità di distinguere fra Io e non Io, c'è relazione con oggetti diversificati. La comparsa del No, al secondo anno di vita, in cui il bambino sa distinguere perfettamente fra sé ed oggetto materno e quindi ha relazioni sociali; qui compare anche la capacità di concettualizzare in modo astratto, simbolico.
Anche Bowlby studiò le carenze affettive dal punto di vista quantitativo, focalizzando l'attenzione sulla carenza da discontinuità dei legami o separazione. I problemi maggiori insorgono in presenza di una carenza affettiva fra i cinque mesi ed i tre anni. Come Spitz, anche Bowlby individua tre fasi attraversate dal bambino privato delle cure materne: fase di protesta, al momento della separazione il bambino piange o si agita per due giorni; fase di disperazione, il bambino smette di mangiare, non si veste e pare depresso; fase del distacco, il bambino accetta le cure ma potrebbe non riconoscere la madre. E' stato costruito un percorso evolutivo caratteristico dei primi due, tre anni di vita, che comprende 4 momenti distinti: il bambino attraversa dapprima una fase di preattaccamento, in cui i suoi comportamenti puramente istintivi e riflessi avrebbero lo scopo di sollecitare risposte di protezione da parte della madre; successivamente, intorno al secondo-sesto mese si viene a determinare un interesse privilegiato del piccolo verso la madre che non comporterebbe però ancora ansia e paura nei confronti di questa.
L'attaccamento vero e proprio si evidenzia a partire dall'ottavo mese e per tutto il secondo anno: il bambino oltre a manifestare in modo spiccato comportamenti caratteristici quali, per es. seguire la madre, aggrapparsi ad essa, toccarla, evidenzia una netta reazione di paura, di ansia se non addirittura angoscia, in presenza di individui estranei e durante la separazione dalla madre.
Questa inoltre costituisce con la sua presenza in un luogo non conosciuto, una base sicura che permette l'esplorazione dell'ambiente. Nella fase successiva, durante il terzo anno il piccolo instaura una relazione reciproca con la mamma; il suo pensiero ormai è di tipo simbolico, gli consente di rappresentarsi mentalmente il suo ritorno o la sua presenza anche in sua assenza.
Di particolare interesse i comportamenti innati specie specifico, importanti dal punto di vista evolutivo perché favoriscono la sopravvivenza del bambino permettendogli di essere in grado di badare a se stesso o di attirare l'attenzione dell'adulto con comportamenti quali piangere, succhiare, sorridere e afferrare. Molti riflessi, come quelli che controllano la respirazione, rispondono ad esigenze vitali. Altri riflessi essenziali rendono possibile la nutrizione: succhiare, inghiottire, ecc. Alcuni di questi riflessi rimangono tutta la vita, mentre altri svaniscono.
I riflessi sono ereditari e di tipo adattivo, stereotipati nella loro forma; sono movimenti del corpo che orientano l'organismo verso un particolare stimolo, azioni a schema fisso. Nella prima infanzia lo sviluppo motorio è cefalo-caudale: i bambini riescono a controllare occhi e testa prima delle mani.
Lo sviluppo è anche prossimo-distale: esso procede dal centro del capo alle estremità, dai muscoli più grandi ai più piccoli. La maggioranza di bambini normali attraversa la stessa successione fondamentale nell'acquisire le abilità motorie: sedere, procedere a carponi, stare in piedi (9-16 mesi) e camminare(9-17mesi). Lo sviluppo motorio dei bambini segue lo stesso percorso in tutti i membri della specie.
La teoria di Bowlby appartiene alle teorie etologiche assieme a quelle di Harlow: queste teorie studiano il soggetto nel proprio ambiente naturale. Bowlby è stato il primo ad integrare gli studi dell'etologia con la psicologia dello sviluppo; egli infatti, studiando i neonati, si accorse che molti dei loro comportamenti innati si ritrovavano anche nei piccoli degli animali. Le sue osservazioni sui neonati lo portarono a sostenere che l'attaccamento sociale tra il piccolo e la madre era necessario per uno sviluppo normale. In questo ambito la teoria dell'attaccamento di Bowlby è la prospettiva teorica di riferimento.
Attaccamento sociale: il 1° anno di vita è critico perché si formi un fondamentale senso di fiducia negli altri e di speranza nel futuro. Ed in ciò le esperienze che coinvolgono il padre e la madre sono le più importanti. Se che si prende cura del bambino risponde ai suoi bisogni in modo affidabile ed attento, il bambino sarà più felice e piangerà di meno rispetto a quelli ignorati (1° anno di vita). Bowlby ritiene che l'attaccamento si sviluppi fra i sei ed i nove mesi, questa particolarissima relazione, fra bambino e madre, si sviluppa in base ad alcuni principi da lui elencati: la tendenza innata a guardare le cose in movimento e certe forme a preferenza di altre; l'apprendimento per esposizione, grazie al quale il bambino riconosce le cose che gli sono familiari e la sua tendenza ad accostarglisi; il rinforzamento di alcuni risultati e l'indebolimento di altri. Verso i 7 mesi i bambini sviluppano un forte legame nei confronti della madre e di una o due persone con cui ha familiarità. I bambini che hanno sviluppato questo attaccamento, piangono quando la madre li lascia e si aggrappano a lei quando hanno paura o si fanno male.
La forza dell'attaccamento può variare molto: alcuni formano relazioni sicure, altri meno fortunati, formano relazioni insicure. Poiché l'attaccamento sociale dipende dalle interazioni sociali, la qualità della relazione madre-figlio è cruciale.
Sfortunatamente anche le madri meglio intenzionate non possono controllare pienamente le qualità delle loro interazioni con le altre persone, compresi i propri figli, così è inevitabile che certe relazioni di attaccamento madre-figlio siano meno sicure di altre. I bambini il cui legame con la madre è insicuro, possono sviluppare problemi emotivi e di comportamento. Negli ultimi anni, gli impegni lavorativi delle donne, hanno fatto emergere l'importanza della figura del padre nell'educazione quotidiana dei figli. Questo può provocare un legame verso i padri, non meno forte che verso le madri, specialmente se anche il padre nutre il bambino, lo lava, ecc. Fra i nove ed i diciotto mesi i primi comportamenti di attaccamento, soprattutto succhiare, seguire, piangere, aggrapparsi e sorridere, si fondono con comportamenti più complessi perché si ha un collegamento tra componenti innate ed apprese. Sempre secondo Bowlby l'individuo agisce spontaneamente per soddisfare le richieste dell'ambiente, non come sostengono Lorence e Freud perché spinto da impulsi biologici a cacciare cibo, a fuggire per salvarsi o per cercare un compagno.
La critica di Bowlby alla teoria psicoanalitica si rivolge anche al principio secondo il quale lo stabilirsi della relazione con l'oggetto libidico avvenga per soddisfare il bisogno orale. Bowlby era in contrasto anche con la teoria dell'apprendimento centrata sul rinforzo, che vede la madre come rinforzo secondario; l'autore ritiene che l'attaccamento del bambino alla madre sia in funzione di comportamenti tipici della specie, innati; la prova di quanto dice si ritrova nell'osservazione di bambini nati ciechi o sordi che acquisiscono ugualmente il sorriso sociale all'età di sei settimane. Questi comportamenti hanno la funzione di mantenere il piccolo vicino alla madre e viceversa. Le descrizioni di Spitz e Bowlby del normale sviluppo evolutivo partendo dall'osservazione di situazioni di deprivazione sono state molto utili; attualmente l'attenzione è però rivolta all'ospitalismo intrafamiliare, ossia alla carenza affettiva che può instaurarsi in senso alla qualità della relazione, in seguito ad un alterato rapporto con la madre senza che avvenga una separazione fisica. Spesso la madre, in famiglie multiproblematiche, può essere inaffidabile ed imprevedibile, di conseguenza, il rapporto che instaura con il suo bambino è inadeguato o patogeno; ciò può determinare una condizione di fragilità dell'Io deteriorandone il successivo sviluppo della personalità.
Una madre non accogliente, non contenitiva, che non sa offrire un adeguato maternale, sia per una sua condizione emotiva sia per difficoltà oggettive di vita, fa sì che il bambino non sperimenti un adeguato attaccamento. Lo sviluppo affettivo è stato descritto soprattutto attraverso i risultati offerti dalla psicoanalisi. La psicoanalisi è retta da assunti di fondo che costituiscono dei modelli che si integrano l'uno con l'altro, per dare una interpretazione articolata dello sviluppo.
Due sono fondamentali:
1) L'uomo è un essere conflittuale, nel quale le pulsioni, e i loro derivati: cioè i desideri, si scontrano con le esigenze esterne, materiali (non disponibilità degli oggetti e dei mezzi di soddisfazione) e sociali (divieti), queste ultime trasformatesi in esigenze interiorizzate. L'uomo è quindi inevitabilmente un essere frustrato, angosciato, che per sopravvivere elabora dei meccanismi di difesa.
2)L'uomo è un essere passionale, cioè asociale (narcisista, perverso polimorfo) e irrazionale (governato dal principio del piacere) che cerca di diventare sociale e razionale per sopravvivere, e non essere sopraffatto dall'angoscia, con molteplici e anche raffinati compromessi come l'altruismo, la cooperazione, la cultura.
Sono messi in luce, inoltre, i principi economici e le leggi dinamiche dello sviluppo che possiamo così riassumere:
A) L'energia di base è stata definita libido. Tale energia, originariamente indifferenziata, evolve nel fascio delle tendenze che poi definiamo personali, sessuali e sociali. All'inizio nel bambino sarà presente una libido narcisistica e poi quando egli sarà in grado di distinguere dal sé il mondo esterno, si parlerà di libido oggettuale.
B) L'energia di base non comprende solo forze che corrispondono all'attrazione verso il sé o verso l'oggetto: forze erotiche; bensì anche forze di repulsione, tendenti all'allontanamento, alla distruzione, definite aggressive. Una parte di queste sono dirette anzi verso il soggetto stesso e determinano l'auto-aggressività. L'impulso aggressivo ha origine precocissima ed è stimolato dalle primitive frustrazioni del bambino. La reazione primitiva automatica, alla frustrazione, è infatti l'aggressività rivolta all'oggetto frustrante, che all'inizio è la madre, verso la quale si stabilisce un rapporto ambivalente: impulsi d'affetto coesistono con impulsi aggressivi.
L'aggressività è rivolta ad un oggetto che è anche l'oggetto d'amore, d'attrazione. In un secondo tempo il soggetto si rende conto di questa ambivalenza e della propria tendenza distruttiva verso la madre ed avverte una situazione di conflitto e quindi di ansia in quanto teme di perdere l'oggetto d'amore. L'energia degli impulsi non può essere annullata, può essere solo rimossa, trasferendo l'impulso stesso a livello inconscio, così da essere ignorato sul piano della coscienza.
Oltre alla rimozione però, può aversi nel bambino il trasferimento degli impulsi aggressivi verso se stesso; gli impulsi eterodistruttivi, diventano così autodistruttivi, autoaggressivi.
C) L'evoluzione delle tendenze passa attraverso fasi di polarizzazione dell'interesse del soggetto su certe parti del corpo. Così la sessualità dapprima diffusa o indifferenziata, passa successivamente attraverso una fase orale: anale-fallica-genitale. Però rimangono nell'adulto es. quote di oralità sessuale (manifestata nel bacio).
D) Nel rapporto di dipendenza del bambino rispetto alle persone dell'ambiente familiare che lo circondano, la figura dominante è la madre; poi vengono altri componenti della famiglia. Lo sviluppo va da una posizione di assoluta dipendenza ad una di progressiva indipendenza da queste figure, dalle quali però non diverrà mai totalmente indipendente.
E) Per quanto riguarda la vita morale, si è evidenziato il passaggio da una prima fase di morale eteronoma, proprio del bambino piccolo che fa certe cose solo per evitare rimproveri e meritare premi, diretta dall'esterno, ad una successiva fase di morale autonoma, caratteristica del soggetto che ha interiorizzato le norme.
F) Alcuni studiosi danno importanza anche al periodo intrauterino, prenatale per quanto riguarda lo sviluppo psichico. Lo sviluppo della vita prenatale ha ricevuto un notevole impulso nell'ultimo decennio grazie all'introduzione ed al perfezionamento di alcuni strumenti di indagine fra cui l'ecografia. L'ecografia è una tecnica agevole che permette l'osservazione diretta del feto in utero, consentendo di rilevare la sua attività motoria, è un processo di osservazione assimilabile allo specchio unidirezionale. Lo studio degli aspetti qualitativi e quantitativi della motilità fetale è importante perché permette diagnosi e prognosi nell'evoluzione di una gravidanza, con particolare attenzione alla salute del feto. Inoltre permette di indagare sull'esistenza e sulle caratteristiche di un'attività mentale del feto; la psicologia fetale va a confermare l'ipotesi che la nascita non rappresenti che un momento, sebbene cruciale, nel corso dello sviluppo psicofisico, non certo il suo inizio.
La tradizionale classificazione psicodinamica dello sviluppo prevede le seguenti fasi:
Prima infanzia - Fase Orale: 1° anno
Il piacere in questa fase è dato dal succhiare e si colloca nella bocca. Verso i 6 mesi c'è il piacere di morsicare. La personalità nasce come un insieme di tendenze allo stato puro, cioè di impulsi e bisogni che vogliono soddisfazione piena e immediata. ES= è li complesso di forze istintive che l'individuo riceve in dotazione dalla specie. La personalità del soggetto è inizialmente tutta costituita di ES. Invece nell'adulto l'ES costituirà solo una parte, essendosi nel frattempo sviluppati l'io: componente cosciente e razionale ed il super-io: componente normativa, sociale.
L'es è dunque irrazionale. Alla personalità infantile iniziale, che si identifica con l'es, si contrappone la realtà esterna che pone dei limiti, risultando cioè frustrante: quindi da una quota di personalità nasce l'io che si pone come istanza mediatrice tra l'es e la realtà e che ha il compito da un lato di interpretare i bisogni dell'es e dall'altro di accordarli con la realtà. Il tipo particolare di rapporto che il bambino ha con la realtà, permette di distinguere nella fase orale diversi periodi:
Periodo del rapporto pre-oggettuale con la realtà: i primi due mesi, nei quali il bambino non percepisce le realtà "fisica" come esterna. Egli ad esempio non avverte il seno materno e la madre stessa come diverso da sé, ma come qualcosa di personale. E' la fase definita del narcisismo primario: posizione egocentrica assoluta. Mahler chiama questa fase "autismo normale; Spitz "assenza dell'oggetto"; Hartman, A.Freud, Kris "fase indifferenziata". Per gli psicoanalisti delle relazioni oggettuali (Klein, Bowlby, Winnicott, Mahler, Spitz) la capacità di porsi in relazione con l'oggetto avviene quando avviene la differenziazione tra il Sé e l'oggetto. Mentre per Freud tale capacità deriva dall'integrazione delle pulsioni sotto il primato della genitalità.
Periodo del rapporto oggettuale con oggetto precursore: è la fase caratterizzata dal sorriso del bambino, di fronte ad un oggetto costituito da un volto, che sia situato di faccia e che si muova; di profilo non provoca il sorriso. Questo periodo il bambino ha iniziato il rapporto con oggetti diversi dal sé. Egli però non sa ancora distinguere le cose dalle persone: si parla quindi di "oggetto precursore". Spitz lo definisce precursore dell'oggetto: il I organizzatore psichico.
Periodo del rapporto oggettuale con oggetto privilegiato: 7°-8° mese. Il bambino comincia a distinguere la madre dall'estraneo. Il volto della madre riconosciuto diventa l'oggetto privilegiato. C'è ora una risposta selettiva: accettazione della madre e difesa dall'estraneo. Infatti si definisce angoscia dell'ottavo mese quella che prova il bambino di fronte alla figura non materna. Spitz lo definisce II organizzatore: questo serve a catalizzare le successive esperienze secondo la dicotomia conosciuto/sconosciuto. Questa reazione non si avrà nel bambino allevato in befatrofio.
Altro contributo alla comprensione della stretta interdipendenza dello sviluppo affettivo con quello cognitivo è dato dalle osservazioni di M.Klein che ha studiato la personalità infantile direttamente, impiegando nel bambino il metodo psicoanalitico. La vita del bambino nei primi mesi è particolarmente ricca di contenuti che prendono il nome di Fantasmi: questi sono costituiti dai sogni, dalle fantasie, dalle rappresentazioni mentali. Secondo K. la vita primitiva del bambino è regolata soprattutto dall'intimo e tiene conto principalmente di queste "presenze" interne di ordine fantastico. Le esperienze intime del bambino riguardano inizialmente i suoi bisogni e la loro soddisfazione. Es. con l'allattamento il bambino appaga il suo bisogno alimentare, sessuale e sociale: piacere. Se non può soddisfare il proprio bisogno, questo provoca insoddisfazione: dispiacere. Egli vive la madre come oggetto buono quando soddisfa i suoi bisogni, e come oggetto cattivo quando frustra tali bisogni. Il bambino vive cioè dapprima due oggetti diversi, laddove c'è uno solo reale: posizione schizo-paranoide. L'ottavo mese coincide con la scoperta che queste due presenze sono una medesima persona e rappresenta una constatazione traumatizzante, e da ciò deriverebbe nel bambino il sentimento di colpa. Il bambino si accorge che l'oggetto materno è apportatore di due realtà: quella buona e quella cattiva. Egli così instaura con la madre un rapporto di ambivalenza affettiva superando un'iniziale fase di depressione dell'umore: posizione depressiva. In definitiva, il bambino supera il periodo critico in quanto si accorge che la realtà non è totalmente ostile: la madre infatti, pur essendo talora frustrata, in genere è li che lo cura e si prodiga per lui.
Tornando alla fase orale, va sottolineato che la bocca non è la sola sede delle esperienze primarie ed essenziali della vita affettiva. Si sono dimostrate di importanza fondamentale per l'equilibrio psicofisico del neonato la stimolazione cutanea (termica, tattile, cinestesica) che risulta fondamentale per lo sviluppo del senso di sicurezza, di apertura fiduciosa verso l'ambiente. Anche il canale acustico è fondamentale. Sulla ricchezza e la varietà degli scambi, e soprattutto sulla qualità delle relazioni si vengono costituendo le fondamenta dell'affettività del bambino. In particolare i sentimenti di sicurezza-insicurezza; fiducia-sfiducia; cominciano a radicarsi in questa fase.
Fase Sadico-anale: 2° anno
L a zona corporea implicata nello sviluppo affettivo in questa fase è quella anale. La fase sadica è così denominata per sottolineare il fatto che il bambino comincia a soddisfare in quest'epoca certi bisogni di aggressività e di lotta. Si comincia a sviluppare l'autonomia motoria, la locomozione ed il bimbo trae piacere dalle prime esperienze di lotta, di competizione fisica coi coetanei, con gli oggetti fisici. Comincia a svilupparsi l'attività verbale con la comparsa del NO ancora prima del SI: usa il no di fronte alle sempre più frequenti richieste e restrizioni della madre che tende a limitarlo.
In questa fase la zona degli sfinteri che regolano la escrezione acquista importanza particolare.
Infatti nel 2° anno la madre da un lato restringe la motricità, dall'altro disciplina la funzione intestinale, esigendo che il bambino non sporchi. Il bambino, educando i propri sfinteri si impegna ad un rapporto di scambio con l'ambiente: egli non ha più soltanto un atteggiamento volto a prendere, a soddisfare le sue esigenze, bensì anche a fornire una prestazione. Col dare e trattenere le feci egli può infatti dimostrare che ha imparato a corrispondere. L'atteggiamento dell'adulto è decisivo ai fini dello sviluppo affettivo, atteggiamenti di limitazione e di interdizione o colpevolizzazione possono contribuire ad accentuare nel bambino i tratti della inibizione, della coartazione e del super controllo: un super controllo che da esterno si fa via via interno una volta che il bambino ha assimilato le norme educative. In altri casi può dominare un clima di contrapposizione e di scontro: una contrapposizione che può avere il suo esito in frequenti cedimenti dell'adulto che può portare ad un interminabile braccio di ferro o ad una incoercibile resistenza passiva tra adulto e bambino. L'atteggiamento dell'adulto prosegue il processo di modellamento delle disposizioni affettive e della personalità già iniziato al primo anno di vita.
Seconda infanzia - fase Fallica o Edipica (3°-4°-5° ANNO)
Verso il 3° anno il bambino per la prima volta vive una serie di problemi che coinvolgono la genitalità e si accentua l'interesse verso quegli organi esterni che meglio rappresentano la sessualità. Il bambino pone ai genitori domande su 2 problemi: la differenza tra i sessi; il meccanismo della nascita del bambino. L'ipotesi iniziale che i bambini generalmente fanno è quella di una ugualianza tra i sessi: l'organo genitale della bambina è considerato identico a quello del maschio. La fase fallica o edipica è caratterizzata da una situazione triangolare nel rapporto del bambino con le figure dei genitori. Verso il 3° anno il bambino comincia ad avvertire sempre più intensamente, un ostacolo al possesso egocentrico del genitore del sesso opposto, verso cui è attratto. L'ostacolo è rappresentato dal genitore dello stesso sesso; il rivale modello diventa così l'oggetto della identificazione normativa del bambino, attraverso la quale egli incorpora inconsciamente molti dei modelli di condotta, le norme, le regole, i programmi e le inibizioni, che il padre rappresenta. Tutto ciò, entrando a far parte di fatto della sua personalità, costituirà in essa quella componente che è denominata super-io: qualcosa che può essere vissuto come più forte dell'io nel senso che non solo frena gli impulsi dell'es, ma anche ispira il comportamento dell'io stesso. La figura paterna viene presa dentro, fatta propria, ingoiata o introiettata, come si suol dire nel linguaggio psicoanalitica, realizzandosi con ciò ad un tempo il superamento, la distruzione dell'oggetto frustrante, il padre, e l'arricchimento normativo del soggetto.
Assimilando le norme, il bambino impara progressivamente a dilazionare i propri bisogni, ed in particolare ad escludere dai propri desideri il totale possesso affettivo della madre.
La bambina, d'altro canto, si rende conto di non avere il pene e rivolge la sua attenzione nei confronti del padre. Timore di perdere la madre e senso di inadeguatezza la portano al superamento di questa fase attraverso la rimozione e l'identificazione successiva con la madre, accettandola come modello di crescita. La situazione edipica può avere effetti molto diversi in relazione alla differente strutturazione di ogni nucleo familiare: per quel che riguarda l'atteggiamento verso la sessualità, in casi estremi il risultato può essere quello della rinuncia e della totale rimozione con l'effetto di una vera e propria castrazione psichica (impotenza; frigidita); in altri casi una particolare costellazione familiare può provocare condizioni di incertezza o di inversione nella identificazione sessuale.
La fiducia ed i sentimenti affettivi verso l'altro sesso possono essere turbati se si hanno avute esperienze familiari negative; le persone possono quindi avere la tendenza a sviluppare reazioni delusorie o gelosia esasperata, senso di inferiorità in seguito ad esperienze edipiche particolari.
La dinamica della tipica relazione triangolare è, anche se oggi sempre meno spesso, complicata dalla presenza di altri membri nella famiglia, quali fratelli e sorelle. La dinamica dei rapporti tra fratelli si inserisce nella dinamica edipica differenziando e personalizzando l'esperienza affettiva dei singoli.
Terza infanzia - Fase di Latenza (5°-6°-11°anno)
Mentre dal 3° al 5° anno il bambino tendeva attivamente a mettere in 1° piano tutto quello che a suo modo riguardava la sessualità, dopo il 6° anno, risolta la fase edipica, quell'effervescenza si spegne e su tutti quei fenomeni si stende, se pur non completamente, il velo della rimozione.
Nella fase di latenza gli impulsi sessuali subirebbero un decremento e questo periodo risulta molto importante per la maturazione intellettiva; affettivamente questa fase non pone gravi problemi.
Il fanciullo è preso dagli interessi intellettuali e ludici, si aggrega ai compagni, si sforza nell'assimilare le norme e le caratteristiche sociali. ha un grande disinteresse per il sesso opposto. C'è un progressivo declassarsi delle figure autoritarie familiari, e quindi una maggiore capacità di differenziare giudizi e comportamenti al fine di raggiungere un buon adattamento nel gruppo.
E' verso l'11° anno, all'ingresso nella scuola media, che il ragazzo acquista l'identità di sé nelle diverse azioni e riconosce che è sempre lui che dice una bugia in certe occasioni e la verità in altre, che a volte può essere ribelle e a volte disciplinato: così anche gli altri sono percepiti non più negli effetti della loro condotta, ma come degli IO totali, dotati anch'essi di una identità, pur variabile, nelle diverse circostanze. Ciò conduce a rapporti sociali più reali e profondi e segna l'inizio della successiva fase di sviluppo: adolescenza.
Eta' della latenza: inibizione psichica o inibizione biologica: Freud faceva coincidere con l'inizio della latenza, meccanismi di difesa quali la regressione e la rimozione, e la fromazione reattiva, la sublimazione e la fantasia per il suo mantenimento.
Shapiro e Perry, facendo riferimento anche a studi di tipo neurologico e cognitivo, indicano nell'età di 7 anni una importante tappa sul piano maturativo, specie in relazione al raggiungimento del pensiero operatorio. L'età della latenza non viene considerata come un periodo di quiete o diminuzione della pulsione sessuale, ma come l'espressione di una raggiunta maggior capacità di controllo delle energie, di dilazionamento dell'energia, in seguito alla concomitanza di diversi fattori relativi allo sviluppo neurologico, cognitivo e psicodinamico; in questo caso si sottolineano le conseguenze del superamento del complesso edipico inteso come risultato dell'interiorizzazione delle immagini parentali e della formazione definitiva del Super-Io per cui se da un lato la latenza si configura come una specie di periodo di attesa nel corso dello sviluppo in cui si verifica un rallentamento o riduzione dell'affettività e dell'immaginazione, dall'altro questa pausa permette al bambino di abbandonare in parte gli interessi edipici per i genitori, uscire nel mondo esterno, cominciare a socializzare ed imparare nel senso scolastico del termine.
Al di fuori dell'ambito psicoanalitico, si sta affermando un nuovo approccio che ha rivalutato la nozione di temperamento nello studio della personalità. La definizione più attendibile è quella di Thomas e Chess che parla di stile comportamentale. Differenze individuali nel comportamento del bambino, caratteristiche personali già presenti dalla nascita, permettono di ipotizzare stili comportamentali diversi, che influenzerebbero fortemente le modalità allevanti della madre. L'aspetto dell'interazione tra il temperamento del bambino e la risposta dell'ambiente appare di fondamentale importanza.
Se infatti da un lato il bambino nasce con un corredo biologico proprio che comprende delle informazioni che riguardano caratteristiche individuali, dall'altro tale corredo lo predispone a interagire con l'ambiente e ad adattare le sue azioni in funzione di esso.
Lo stile comportamentale del bambino si definisce rispetto ad alcune dimensioni che differiscono sin dalla nascita; queste sono il livello di attività, la regolarità delle funzioni biologiche, l'approccio o la ritirata di fronte agli stimoli nuovi, il grado di adattabilità, la soglia sensoriale, l'umore prevalente. Tali dimensioni permettono di individuare tre ampie categorie di temperamento: quella del bambino facile, del bambino difficile, del bambino lento a scaldarsi. Uno sviluppo positivo del bambino è garantito proprio dalla cosiddetta goodness of fit, cioè una perfetta concordanza tra le caratteristiche del bambino e le aspettative e le risposte dell'ambiente. A livello di indagine rispetto allo sviluppo affettivo, sembra fondamentale utilizzare i reattivi del disegno, nonostante i limiti dei tests proiettivi. Il test del disegno dell'albero di Koch ci indica le strutture portanti, gli aspetti autentici e profondi della personalità, è l'equivalente dell'autoritratto. Le radici dell'albero, nella loro presenza o assenza, danno stabilità alla persona, rappresentano la parte primitiva ed istintuale, l'energia vitale; il tronco rappresenta l'Io, con i suoi eventuali traumi o nodi, collocabili lungo lo sviluppo evolutivo; la chioma è l'espressione della vita mentale, della creatività, degli interessi e soprattutto delle relazioni con l'ambiente sociale. Il test del disegno della figura umana di Machover offre l'autoimmagine personale e sociale immediata che il bambino possiede di se stesso.
Le relazioni con l'ambiente sono individuate nel test del disegno della famiglia di Corman, qui è possibile seguire le fasi dello sviluppo del bambino in base alla collocazione dei personaggi nello spazio, alle loro dimensioni, alle caratteristiche grafiche, sulla base delle identificazioni.
Di solito il bambino disegna la famiglia che desidera, o quella di cui ha paura, sulla quale riversa aspettative, difese, esigenze e tendenze affettive positive o negative, bisogni; è una famiglia differente dalla famiglia reale. Anche il C.A.T. è utile per individuare i conflitti di base nello sviluppo psico-affettivo, i meccanismi di difesa, i rapporti con i genitori, le tappe della maturazione affettiva e le identificazioni. Nel C.A.T. sono presentate al bambino scene di animali, in base ad esse al bambino è richiesto di inventare una storia. La teoria cognitivista con la terapia cognitiva propone la possibilità di intervenire sulla sfera affettiva ed emozionale non direttamente, ma attraverso la correzione e la trasformazione delle cognizioni che ne sono all'origine. Un principio di base è che il contenuto del pensiero influisce sullo stato d'animo, determinandolo.
L'evento sperimentato diventa soggettivo grazie al suo significato di piacevolezza o spiacevolezza che gli viene attribuito con l'interpretazione. Il modello cognitivista fa risalire molti problemi psichici a distorsioni delle realtà, visioni della stessa basate su premesse errate, avvenute per un apprendimento difettoso nel corso dello sviluppo. Si formano così giudizi inesatti che hanno valore di abitudini sempre più radicate, delle quali la persona non è consapevole; valutazioni irrealistiche della realtà prevalgono su quelle realistiche e le reazioni del soggetto appaiono eccessive ed inappropriate. La nevrosi, in questo modello terapeutico, è vista come un disturbo del pensiero in cui la persona distorce la realtà per adattarla alle idee che dominano il suo pensiero.
Le differenze fra le varie nevrosi sono date dal diverso contenuto del pensiero; la forza di tali pensieri aumenta quanto più la patologia è grave. L'approccio cognitivista usa, come strumenti terapeutici, le interpretazioni, le previsioni, le strategie di soluzione dei problemi, i ragionamenti, ossia gli aspetti del pensiero che il paziente può impiegare in modo costruttivo.
L’ansia è un’emozione che rappresenta un’esperienza che tutti noi facciamo comunemente: nel corso della nostra vita abbiamo imparato che questa può essere percepita come piacevole (ed es. quando si ha un appuntamento con la persona amata) o come spiacevole (ad es. prima di sostenere un esame) a seconda delle circostanze.
Quando l’ansia è negativa somiglia molto alla paura al punto da poter essere considerate due facce della stessa medaglia, infatti sono diversi gli aspetti che le due emozioni hanno in comune:
la tipologia di "attivazione fisiologica" (tachicardia, aumento della frequenza respiratoria, dilatazione delle pupille, sudorazione, ecc.)
la spiacevolezza
il comportamento che ne consegue, che la maggior parte delle volte è disorganizzato e teso alla fuga, cioè all’allontanamento da ciò che temiamo.
L’ansia e la paura sono due emozioni che i bambini manifestano abbastanza frequentemente ma per gli adulti è sempre piuttosto difficile differenziare quando questi manifestino l’una o l’altra: spesso ognuno di noi tende ad interpretare in modo "adulto" l’emozione manifestata da un bimbo.
Infatti per noi è facile comprendere quale emozione esprima un bambino davanti ad un serpente ma quando deve andare a scuola o stare a dormire dai nonni ed osserviamo la stessa reazione è come se rimanessimo interdetti, il primo interrogativo è: "ma cosa c’è che lo terrorizza così tanto?" e ancora: "ma perché il mio bambino teme quello che gli altri non temono?" In questo caso stiamo assistendo ad una reazione dovuta all’ansia o alla paura? Che tipo di emozione provano i bambini in queste circostanze?
L’ansia è una reazione ad un pericolo percepito, dunque è una risposta a qualcosa che non può essere considerato obiettivamente pericoloso e potenzialmente dannoso per l’individuo (come invece lo sarebbe il morso di un serpente).
Quando osserviamo una reazione di paura in assenza di una circostanza oggettivamente "pericolosa" (per es. trascorrere qualche ora con un famigliare) allora è probabile che stiamo assistendo ad una manifestazione dell’ansia.
Probabilmente a tutti noi sarà capitato almeno una volta di osservare delle reazioni di qualche bambino che abbiamo valutato come eccessive oltre che immotivate.
Ciò che rende difficile comprendere quale sia il problema, e tentare la soluzione adatta, è il fatto che noi adulti interpretiamo il mondo in modo differente, cioè attraverso le regole "logiche" che governano il mondo di noi "grandi".
Infatti siamo spaventati da alcune cose (povertà, incidenti, malattie, ecc.) che invece lasciano indifferente un bambino e, viceversa, i bambini sono intimoriti da situazioni (ad es. interagire con persone sconosciute) che gli adulti vivono in modo sereno.
Il mondo dei bambini, invece, è governato da regole differenti che noi non ricordiamo più e che quindi non possiamo utilizzare per facilitare la comprensione delle loro necessità.
In realtà questa sproporzione potrebbe essere colmata se riuscissimo ad osservare il mondo attraverso i loro occhi: in questo modo potremmo individuare delle reazioni logiche a paure fondate.
Paure normali o no?
I bambini nel corso del loro sviluppo presentano diverse paure tipiche, cioè che compaiono con una certa frequenza in moltissimi bambini e che, in parte, sono dovute allo sviluppo del loro sistema nervoso e che quindi possono essere considerate normali.
Ad esempio fra i 6 ed i 12 mesi compare comunemente la paura dell’estraneo, cioè il bambino si allarma alla presenza di una persona sconosciuta, inizia a piangere, si stringe alla madre, ecc.
Fra i 2 ed i 4 anni invece è comune la paura di animali e oggetti non comuni, come oggetti che si contorcono, serpenti, ecc.
Fra i 4 ed i 6 anni tipicamente i bambini hanno paura del buio e delle creature immaginarie. A 6 anni potrebbero sviluppare addirittura la paura della scuola.
Davanti a questi timori è probabile che nessun genitore si preoccupi eccessivamente dal momento che ognuno di noi conserva il ricordo di aver avuto paure simili e di averle superate con il tempo e l’esperienza.
In questi casi gli adulti sanno cosa fare, come rassicurarli e riescono a trovare delle modalità di comportamento finalizzate ad insegnare ai piccoli come affrontare questi "pericoli". Questa semplicità è data dal fatto che è chiaro ed evidente il legame fra oggetto e paura.
Tuttavia alcuni bambini presentano delle paure diverse da queste, paure che i genitori non riescono ad attenuare dal momento che non sono in grado di identificarne la causa.
Infatti quando un genitore osserva il suo bambino che:
soffre quando deve andare all’asilo/scuola
non vuole saperne di dormire da solo
ha paura smarrirsi o essere rapito
ha paura di stare da solo
ha frequenti incubi notturni
spesso lamenta sintomi fisici
percepisce che c’è qualcosa che non va ma non riesce a comprendere cosa e, soprattutto, come aiutarlo.
A questo punto si tenta di trovare delle spiegazioni attraverso le probabili risposte alle domande:
cosa c’è che lo spaventa all’asilo/scuola?
sarà viziato?
qualcuno gli ha messo in testa che può essere rapito?
i dolori che lamenta saranno una scusa perché non ha voglia di andare a scuola?
cosa avrà visto in tv?
E’ probabile che le sue paure riguardino il timore di essere abbandonato, che in sua assenza possa succedere qualcosa ai genitori, alla certezza che quel contesto non sarà adeguato e quindi non riuscirà ad integrarsi, ecc. .
Davanti a queste possibili spiegazioni ogni genitore reagirebbe con un: "Ma è assurdo, come può succedere una cosa del genere?"
Il concetto di attaccamento
Probabilmente una risposta a questa domanda possiamo trovarla nel concetto di attaccamento. Con questo termine ci si riferisce alla relazione che si instaura fra madre e figlio fin dalla nascita. Questa è caratterizzata da una dipendenza reciproca: del figlio dalla mamma per ragioni di sopravvivenza e della mamma dal figlio perché quello diventa il suo unico oggetto d’amore.
Nonostante questa interdipendenza la risorsa maggiore sta proprio nella capacità di rendere questo legame sempre meno stretto, in modo da permettere al piccolo di sperimentare il mondo in autonomia.
Infatti è proprio lo sviluppo di questa abilità che, una volta cresciuto, gli permette sia di sopravvivere indipendentemente dal supporto esterno sia di farlo nel miglior modo possibile per se stesso.
Proviamo ad immaginare cosa succederebbe ad un bambino al quale, per paura che possa farsi del male (quindi solo per il suo bene), venisse impedito di muovere i primi passi nelle prime fasi di acquisizione della deambulazione e venisse tenuto sempre seduto.
In questo modo si avrebbe sicuramente la certezza che non vada incontro ad alcun pericolo ma allo stesso modo non gli si darebbe la possibilità di sviluppare un’abilità che gli è indispensabile per vivere.
Fortunatamente questa è un’eventualità che si verifica molto raramente dal momento che un genitore, dopo aver fatto un bilancio (è meglio che io stia un po’ in apprensione perché potrebbe cadere e magari farsi del male o è più vantaggioso che lui non impari a camminare?), opta per la necessità di correre il rischio.
Questo potrebbe sembrarvi un esempio banale, dall’esito scontato ma, a mio parere, molto esplicativo di un meccanismo generale che dovrebbe guidare tutti i piani educativi.
Cosa potrebbe capitare ad un bambino che non è abituato a fare le cose da solo?
Un bambino che non è abituato a vivere la propria autonomia quando si trova da solo, nella necessità di "arrangiarsi" si sente smarrito, è come se non sapesse come può fare per vivere le diverse situazioni.
Si sente come un soldato che venga mandato a combattere una guerra in trincea ed al quale non siamo state fornite armi e corazza: si sente in pericolo!
Le armi e la corazza di cui i bambini necessitano non sono altro che le abilità sociali e l’autostima, che si costruiscono solo mettendosi in gioco, provando ad affrontare delle situazioni, vivendo appieno gli errori e le conseguenze che ne derivano ed imparando da essi.
Questi bambini invece spesso sono tenuti sotto l’ala protettrice dei genitori che gli impediscono di sbagliare, li tengono lontani da tutti i pericoli, li accompagnano ovunque: sono bambini che "non sbagliano mai" e si costruiscono un’immagine di sé errata, di chi non commette alcun errore.
La conseguenza più diretta in genere è che quando guadagnano il primo insuccesso, che inevitabilmente prima o poi arriverà, soffrono terribilmente così che, anziché imparare dallo sbaglio, ne rimangono vittime.
D’altro canto potrebbe accadere l’esatto contrario, cioè che si decida di trattare i bambini come dei piccoli adulti, che vengano lasciati liberi di scegliere quando mangiare, cosa mangiare, quando dormire, cosa indossare, quando giocare, e così via.
Una relazione genitore-figlio improntata in questo modo è probabilmente più "serena" (nell’immediato, non certamente nel futuro) e meno conflittuale ma priva il bambino di uno dei suoi diritti fondamentali: la capacità di autoregolarsi.
I bambini non hanno conoscenza del mondo e delle regole che lo governano, dobbiamo essere noi ad insegnargliele, altrimenti saranno gli altri a farlo e, possiamo stare certi, non seguirebbero le modalità accorte proprie dei genitori.
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